battaglia paolo uccello

Note su Il trovatore

di Renato Palumbo

battaglia paolo uccello
Paolo Uccello La battaglia di San Romano

Il trovatore, ultima opera della cosiddetta trilogia popolare, rappresenta un punto di snodo fondamentale nella produzione verdiana e prelude ai capolavori della maturità come Rigoletto aveva chiuso l’esperienza degli anni di galera. Questo è dunque necessariamente opera rivoluzionaria nella forma, mentre nel Trovatore Verdi sembra ribadire un legame elettivo con il mondo del belcanto, una costruzione che è un vero e proprio omaggio alla classicità. Già nell’impianto del libretto è evidente la ricerca della simmetria nella micro come nella macro struttura. Le quattro parti constano ciascuna di due scene, quasi un’iperbole della frase musicale tipica della tradizione melodrammatica: otto battute bipartite esattamente in domanda e risposta. In queste scene i numeri musicali sono tutti rigorosamente basati su quella che Basevi per primo definì solita forma, sviluppata in scena, cantabile, tempo di mezzo e cabaletta o in scena, tempo d’attacco, concertato, tempo di mezzo e stretta.
Non si tratta, però, semplicemente, di formule convenzionali; nel rigore quasi archeologico del Trovatore la Forma è infatti esaltata nel più nobile senso del termine, al pari della terzina dantesca o del sonetto, dell’esametro o del distico elegiaco, della forma sonata o della fuga. Verdi, senza piegarsi pedissequamente a regole cristallizzate, modella la struttura dall’interno mettendola al servizio del dramma.
Ne è un esempio l’incipit della quarta parte, a differenza delle precedenti aperta non da un quadro corale, ma da un’intima e cupa atmosfera notturna che ne sarà la cifra distintiva. Dopo “D’amor sull’ali rosee”, il tempo di mezzo che la separa dalla cabaletta, “Tu vedrai che amore in terra”, è sviluppato come un concertato di straordinaria inventiva e forza drammatica. Il coro esterno ribatte imperturbabile il suo canto funebre; Leonora in scena frange la sua angoscia fra semitoni nell’ansimare d’un metro giambico; opposta all’incedere greve dei monaci, ignara della presenza dell’amata, s’innalza la melodia del Trovatore, estrema eco della romanza con la quale, sempre dalle quinte, Manrico si era presentato al pubblico, Deserto sulla terra. Spentesi queste voci, sorta di proiezione del tumulto della sua anima, Leonora può erompere nella cabaletta che è il trionfo della sua passione estrema. In quel rincorrersi agile di scalette nelle quali la voce scende agli inferi e si proietta in un’estasi celeste, si preannunciano i picchiettati con i quali siglerà la gioia febbrile del patto scellerato con il Conte, l’ebbrezza del supremo sacrifico d’amore. Un sacrificio sublime che ben s’inscrive nell’etica cortese d’un intrigo amoroso stretto fra le maglie d’un fato perverso e inesorabile, ma nel quale anche un rapimento è progettato con accenti che hanno la nobile tenerezza del dolce stil novo.
In questo mondo le Forme non solo hanno senso, sono necessarie. A “D’amor sull’ali rosee” segue necessariamente il “Miserere”, a questo necessariamente “Tu vedrai che amore in terra”. Analogamente, nella prima versione del Simon Boccanegra (1857), dopo “Come in quest’ora bruna” la serenata del tenore “Cielo di stelle orbato” funge da tempo di mezzo prima della cabaletta “Il palpito deh frena”, ma questa cabaletta cade poi nella seconda stesura (1881) e Adorno subito appare per il duetto con Amelia. Anche nel rifacimento francese del Trovatore Verdi decide di omettere la cabaletta, spezzando così il rigore della solita forma, per enfatizzare quel “Miserere” che rientrerà minaccioso nel finale dell’opera, assai differente in questo punto dalla versione italiana.
Ogni atto racchiude una grande aria tradizionale: “Tacea la notte placida”, “Il balen del suo sorriso!, “Ah sì ben mio”, “D’amor sull’ali rosee”. Due per Leonora, una per il Conte e per Manrico, nessuna per Azucena. La zingara cui Verdi avrebbe voluto intitolare l’opera si esprime infatti con un linguaggio musicale altro rispetto ai tre personaggi nobili, che trovano nella perfezione della solita forma il corrispettivo musicale del loro mondo araldico e cortese. Azucena canta una vera e propria canzone, una sorta di ballata popolare sulla morte della madre, quindi un racconto – di nuovo, non un’aria – sullo stesso soggetto, rivissuto in prima persona. La vicenda del rogo e del tentativo di vendetta, costantemente ripetuta da voci e angolazioni sempre diverse, rappresenta il vero fulcro drammatico della partitura. Anzi, possiamo ben dire che Il trovatore è un dramma epico nel senso primo, aristotelico, del termine, ovvero privilegia il racconto all’azione, anzi, fa del racconto il cuore stesso dell’opera. Ferrando narra la storia della madre di Azucena e del piccolo Garzia; Leonora riferisce del suo incontro con il misterioso trovatore. Manrico racconta del duello con il Conte e Azucena tornerà più volte a rievocare il supplizio, fino a rivivere come un’allucinazione quel rogo fatale.
Dalla vera storia che i seguaci del Conte chiedono a Ferrando per scuoterli dal torpore della veglia notturna sembra scaturire e dipanarsi di scena in scena il dramma, delineato come in un arazzo medioevale che sviluppi nella sua lunghezza tutti gli episodi d’una antica leggenda. Così Il trovatore ricorda nella costruzione le tavole della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, che intarsia netti contrasti di cavalieri e stendardi senza un’apparente realismo prospettico. Tutto nasce fra le ombra notturne d’un racconto intriso di magia e superstizione e tutto si risolve nella vendetta inesorabile che quel racconto conclude.
L’eco popolare della leggenda medioevale, ricordata con i toni ora della ballata ora del ricordo personale da Azucena e Ferrando, prende vita in una serie di quadri perfettamente compiuti sotto il profilo formale, esattamente come le passioni di dame e cavalieri, come le sorti di armi e amori di fronte alla maledizione d’un destino già scritto. Anche nell’audacia di alcune soluzioni, fra cui la stessa Introduzione, Verdi riesce a rivestire d’una patina arcaica, persino ancestrale, l’intera partitura. Caratterizza subito dal punto di visita tonale situazioni e personaggi, vincitori e vinti, rendendo ancor più netti i contorni di questo favoloso arazzo. La scrittura orchestrale è d’una finezza persino cameristica, che esalta il fascino timbrico dei fiati e in alcuni passaggi fa pensare alle antiche intavolature per liuto.
In un disegno netto quanto rigoroso convivono antico e moderno, bagliori di spade e armature, infinita dolcezza, magia e mistero; il concertatore deve esaltare questi contrasti, trovando la sintesi fra la forza travolgente e il finissimo cesello di questo capolavoro. Nel Trovatore Verdi si conferma un genio che ben conosce la strada che lo porterà all’abbandono della forma chiusa, ma che vuole dimostrare come anche nel rigore ferreo della Forma il melodramma possa librarsi rivelando affetti e caratteri forti, appassionati, struggenti, quasi vivide macchie di colore. Mai come nel Trovatore, nella suggestione d’un Medioevo stregato, la ricerca sonora verdiana aveva trovato una così completa espressione.

programma di sala, Il trovatore, Parma, Verdi Festival 2006

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