Gli Amici della musica, february 2004

Da qualche anno il nome di Renato Palumbo si sta imponendo nei maggiori teatri lirici grazie alle doti sempre più rare di autentico concertatore, moderno erede della tradizione italiana inaugurata da Toscanini ma pure interlocutore brillante e intelligente, col quale, innanzitutto, abbiamo percorso le tappe iniziali della sua carriera:

Ho cominciato ad interessarmi di musica da bambino, col pianoforte poi cantando in un coro di chiesa, che a volte, dai dodici tredici anni dirigevo anche. Così, con il coro e l’orchestra di Montebelluna già a sedici anni diressi la Teresienmesse di Haydn. Da un paio d’anni mi ero avvicinato e subito innamorato della musica lirica frequentando un tenore che dava lezioni nel mio paese. Cominciai prestissimo a lavorare in teatro come pianista, poi come suggeritore e maestro del coro; già nel ’83 ero maestro di coro a Bari e del coro Cilea di Reggio Calabria, che avevo fondato nell’81, ed ero suggeritore a Jesi. Allora non pensavo che avrei fatto il direttore, amavo stare in teatro, l’atmosfera goliardica e spensierata del palcoscenico, che adesso mi manca un po’. Nell’83, però, un impresario mi propose di debuttare col Trovatore in Sicilia, in stagioni di provincia, dove ho poi concertato opere come Traviata, Butterfly, Bohème. Dopo il servizio militare,nell’84-85,però sono uscito dal giro e allora ho deciso di completare gli studi di Composizione, direzione di Coro, direzione d’orchestra. Intanto mi capitava ancora di lavorare qualche volta in provincia, dove ho conosciuto un baritono turco che ha fatto il mio nome ad Istanbul. Mi chiamarono per tre recite di Trovatore e rimasi invece sei anni come direttore generale del teatro, un teatro alla tedesca con recite ogni sera. Cominciai così a prendere contatti che mi portarono a Macao, dove sono stato direttore musicale dal ’90 al ’99, in Sudafrica, Giappone, Spagna, in Germania e quindi in Francia, dove mi vide Sergio Segalini scritturandomi subito per il festival di Martina Franca. Così nel ’98 sono rientrato in Italia dopo 10 anni e da lì le cose sono state abbastanza semplici, sono entrato facilmente nei grossi teatri. Una serie di occasioni, quindi, sperate e non sperate, perché per fare il direttore ci vuole una certa bravura, ma anche la componente fortunosa è molto forte.
Il suo repertorio è molto vasto

All’estero ho avuto modo di affrontare già moltissimi titoli e desidero occuparmi un po’ di tutti i repertori: quest’estate tornerò a Pesaro, dove ho diretto Adina lo scorso anno, per l’Elisabetta regina d’Inghilterra, poi alla Scala dopo la Lucrezia Borgia del 2000 dirigerò Beatrice di Tenda, a Cagliari l’Hans Heiling di Meshner, a Martina Franca ho fatto per due volte Meyerbeer, Robert le diable e Les huguenots. Credo sia meglio non fossilizzarsi su un repertorio ma spaziare dal belcanto fino al ‘900: è impensabile far bene l’ultimo Verdi se non si conosce il primo Verdi e questo senza conoscere Bellini e Donizetti. E’ importante avere sempre una visione molto ampia del repertorio, dalle origini, da Rossini e se possibile anche da Monteverdi, e saper guardare al melodramma in prospettiva storica, senza dimenticare le basi del belcanto italiano anche nell’opera verista, altrimenti ci si ferma ai grandi effetti, riducendo i cantanti a degli urlatori.
Partiamo dunque da Rossini e dal festival di Pesaro.

Adina è stata la prima cosa che mi hanno offerto al Rossini Opera Festival, un’opera considerata minore che si voleva valorizzare e che ho accettato anche per conoscere quell’ambiente. E’ un’opera molto particolare ed ho pensato di renderla più agile alleggerendo i recitativi. Trovo che il fortepiano ed il continuo di violoncello e contrabbasso utilizzati nell’edizione del ’99 legassero molto l’opera, ho messo il solo clavicembalo, che rendeva tutto più snello. In più abbiamo aggiunto un numero di coro ed un recitativo che illustravano meglio la vicenda. Credo che così l’opera abbia acquistato maggiore autonomia e risultasse meglio definita.
L’Elisabetta non è mai stata fatta a Pesaro, inoltre è appena uscita l’edizione critica curata da Gossett. Il materiale mi è appena arrivato, quindi devo ancora vederlo bene, ho parlato con Daniele Abbado, che ne curerà la regia, e stiamo cercando di trovare qualcosa per rendere ancor più interessante la produzione.

Il suo rapporto con la filologia?

Secondo me la filologia dev’essere al servizio dell’esecutore, non pura informazione fine a se stessa. Ne ho discusso anche con Gossett in occasione del Gustavo III a Napoli: noi interpreti, più dei dettagli storici, vorremmo avere dalla filologia un apporto pratico, esecutivo, perché altrimenti si rischia di diventare schiavi del nulla. Ci sono opere, ad esempio, che avevano bisogno di essere completamente ripulite dal punto di vista filologico, come ha fatto il Maestro Zedda per il Barbiere di Siviglia: un lavoro quasi estremo, ma necessario perché l’opera nel tempo aveva subito molti cambiamenti. Purtroppo però, ed è un caso differente, ci sono invece delle questioni che si nascondono dietro la filologia per rinnovare i diritti. Quello dei filologi è un ambiente molto particolare, ma l’importante è sempre che non prevalga mai il fanatismo. In fondo il melodramma un tempo non era non come lo consideriamo oggi: il pubblico andava a teatro e se gli piaceva, se c’era il grande cantante, la grande romanza, il grande acuto tornava e se no non ci andava più. Non dobbiamo mai dimenticarci che il melodramma nasce dalla tragedia greca, che era la forma più completa di teatro, ed oggi non possiamo renderlo asettico incolpandone la filologia. Può farci comodo perché non abbiamo più le grandi voci che possono fare certi repertori, ma è un altro discorso, non nascondiamoci dietro la filologia! Questa è fondamentale da un punto di vista informativo: ho bisogno di conoscere filologicamente la storia dell’opera e delle sue edizioni. Non dimentichiamoci però che il nostro teatro vive anche di tradizione e grandi maestri come Toscanini, Votto, in particolare Serafin erano grandi uomini di teatro e le loro scelte, anche criticabili, non erano mai fatte stupidamente.

Non si deve, quindi, rinnegare il teatro, la tradizione. A ben guardare, poi, proprio la tradizione, l’uso, fa parte a suo modo della filologia. Il do della pira, ad esempio, è una tradizione che deriva dalla situazione drammatica, per cui il tenore esprime la sua forza in questa puntatura acuta, perché negargliela se può farla? Se non ce l’ha e vogliamo rischiare meno, togliamola, però è una questione, secondo me, drammaturgica, dal punto di vista filologico, farla o meno non cambia nulla.

Tutto il primo Verdi fino al ’57, al primo Boccanegra, presenta arie con cabalette ripetute, che devono essere variate, altrimenti è come ascoltare un disco due volte, non ha senso. Eppure noi tradizionalmente non le facciamo quasi mai, soprattutto per le voci maschili. Purtroppo però il filologo offre molto di rado gli strumenti per realizzare delle corrette variazioni, mentre ci informa su ogni dettaglio dell’autografo, importante per lo studioso, molto meno per l’esecutore. Ho discusso con questo con Gossett, che mi ha dato ragione, ma ha anche sottolineato un altro aspetto: sono i filologi ad aver bisogno degli esecutori che provano sul campo l’applicazione dei loro studi. Questo però non è facile: quest’anno a Pesaro ho trovato grosse difficoltà ed ho dovuto impormi per sostituire il fortepiano e il basso continuo con il cembalo solo. Poi tutti siamo stati d’accordo, ma prima sembrava di toccare un esplosivo: perché nasconderci dietro a queste cose, piccolezze in confronto all’immensità della drammaturgia d’un’opera lirica? In questo modo la filologia finisce per sembrare la arida, ma non lo è.

E per quanto riguarda i tagli?

Si può tagliare un da capo per venire incontro alle difficoltà di un cantante, inoltre il da capo non ha bisogno solo di variazioni musicali, ma deve essere anche sostenuto da un aspetto drammatico, scenico. Se dal punto di vista registico tutto si blocca ci troviamo bloccati anche noi. Anche per questo motivo cerco sempre di avere un rapporto costruttivo con i registi, mi piace molto andare a tutte le prove di scena e nella maggior parte dei casi abbiamo dei rapporti ottimi. Oggi è impensabile tornare alle regie di 30-40 anni fa, il gusto del pubblico è cambiato, sono cambiati i tempi d’espressione e la soglia d’attenzione, anche per l’influenza della televisione. E’ un fatto anche culturale, di ritmi di vita che sono cambiati. Oggi noi abbiamo quindi nuovi obblighi estetici: il teatro deve avere un ritmo quasi da musical, incalzante, i cantanti devono essere anche attori, oggi si richiede loro molto di più. Il direttore ha dunque il duplice compito di rendere la partitura più sinfonica possibile, perché oggi non c’è più differenza fra direttore sinfonico e direttore lirico, e di cercare di aiutare il regista a mettere in scena quello che ha in mente, perché se ha delle idee ha anche bisogno di essere sostenuto dal direttore. Il problema oggi è sempre drammaturgico: non esistono regie belle e regie brutte, esistono regie stupide e regie intelligenti. Ci può essere benissimo un allestimento pazzoide, si può anche contestare, però ci si deve sempre chiedere se ha dato quello che il pezzo voleva. Se la risposta è sì il regista ha avuto ragione, altrimenti ha avuto torto, è partito da un’idea iniziale e non è stato più capace di muoversi. Non possiamo più ritornare indietro e se non ci sono più i soldi per fare il teatro sperimentale bisogna fare in modo che questa collaborazione fra musica e teatro sia molto più forte di prima nel rispetto della drammaturgia, della musica, della partitura e degli artisti.

Lei è forse l’ultimo esponente della tradizione dei grandi direttori d’opera italiani.

Io ho avuto la grande fortuna di cominciare da piccolo a frequentare il teatro, ho studiato canto e quindi so anche trattare vocalmente gli artisti. Faccio dei masterclass e allora tutto diventa più facile, perché l’artista sa che il direttore lo fa respirare, capisce i suoi problemi tecnici. Un direttore che non viene dal teatro, per quanto bravo, non potrà mai capire bene cosa vuol dire stare sul palco, quali siano i problemi pratici della scena. E’ facile dire “Andate a tempo, seguitemi”, ma i cantanti o i cori non vogliono andar fuori: hanno dei problemi che un direttore nato in teatro può risolvere più facilmente. Oggi purtroppo manca una vera scuola di teatro, anche perché manca la lirica minore, che costava molto ed aveva anche una brutta nomea; dopo aver lavorato nei teatri minori per passare negli enti italiani io ho dovuto stare all’estero 10 anni, perché il mio nome, se mai l’avessero imparato, fosse dimenticato. Altrimenti sarai sempre considerato direttore da provincia, quando spesso questi sanno risolvere un allestimento molto meglio di un grande direttore in un grande teatro, perché se in pochissime prove riesci a far quadrare uno spettacolo sei sicuramente un ottimo direttore: è nei casi disperati che esce l’istinto, la cosa più bella qualità per un direttore. Con un grande istinto poi tutto funziona.

Un tempo, poi, c’era una vera abitudine al canto, nelle chiese per esempio. L’epoca d’oro delle voci è stata nel dopoguerra, quando la gente che voleva dimenticare, ma anche raggiungere qualcosa soffrendo; oggi si ottiene troppo senza sacrifici, ma sono cose che durano poco e si apprezzano molto meno. Io per esempio nella mia vita ho sofferto abbastanza, i primi anni sono stati molto duri e mi hanno formato sia come uomo sia come musicista. Ringrazio Dio per questo, perché ho avuto la possibilità di apprendere con fatica, così posso goderne i frutti, che altrimenti vivrei in modo molto più spensierato, ma anche più superficiale.

Parliamo di un importante debutto imminente, Hans Heiling di Marschner a Cagliari

E’ veramente molto interessante. L’opera è contemporanea di Robert le diable, di Norma e delle grandi opere belcantistiche. Vediamo dunque in tutta Europa opere che rappresentano l’identità di un popolo e la sua vocazione: noi il belcanto, in Germania il dramma, con recitativi già molto forti, in Francia Meyerbeer che era già avanti di vent’anni rispetto agli altri, un po’ perché l’origine tedesca, ma soprattutto perché Parigi era il fulcro ed il crocevia della vita artistica europea. La prassi esecutiva per questo come per tutto il repertorio dev’essere quella della logicità: innanzitutto lo studio del libretto, quindi l’analisi metrica di tutta l’opera, perché solo così si capisce quanto l’autore fosse ispirato. Ci sono autori assolutamente liberi nella composizione, e questa grande libertà emerge anche nell’esecuzione e all’ascolto, invece altri sono molto rigidi nella costruzione metrica dell’opera e vanno presi un po’ alla tedesca, con molta precisione. Non posso dire “Faccio Merschner quindi la prassi esecutiva sarà assolutamente tedesca”; l’idea mi sarà data dallo studio approfondito della partitura, dalle sensazioni che avrò, dall’allestimento, dai cantanti…Altrimenti è meglio cambiar mestiere subito, si deve arrivare sempre senza alcun pregiudizio. L’idea dev’essere semplicemente fare l’opera com’è, adattandola come un vestito per i cantanti e dell’orchestra con cui si lavora, tenendo presente che a qualità d’orchestra corrisponde poi qualità d’esecuzione e anche qualità di ricerca da parte del direttore: se l’orchestra non è buona bisogna farla andare insieme, se hai un’orchestra molto buona, cerchi di fare musica lavorando su suoni e dettagli. Dipende tutto dall’esperienza e la prassi esecutiva, secondo me, s’impara col tempo.
Abbiamo nominato Meyerbeer, che con le sue recenti prove a Martina Franca ha contribuito a riscoprire…

Les Huguenots sono un’opera di una drammaticità che in Italia troviamo solo trent’anni dopo. Purtroppo a lungo si è parlato di Meyerbeer, del grand opèra senza conoscerlo, se non per modo di dire: se Meyerbeer fino alla fine dell’800 era in tutti i teatri con la pulizia razziale nazista e fascista è scomparso. Inoltre era troppo difficile da eseguire, come lo è oggi per durata, complessità scenica musicale e vocale, anche nei ruoli minori. Oggi però ci sono dei titoli che devono rientrare nel repertorio almeno dei grandissimi teatri, che ormai, invece, limitano il repertorio sempre più all’indietro. Ci sono meno rischi esecutivi, ma in questo modo si uccidono le grandi voci, non si da la possibilità a nessuno di emergere nel grande repertorio. Non è vero tanto che non ci siano cantanti, quanto che se certe opere non si eseguono non ci saranno mai! Così i repertori dei cantanti sono spesso falsati: il lirico fa il lirico spinto abbondante quasi drammatico, il tenore leggero il lirico pieno. Oggi si è persa la strada e non so se la ritroveremo. Purtroppo tanti cantanti arrivano a un’audizione con Nessun dorma, Che gelida manina, Quanto è bella quanto è cara tutto insieme. Verrebbe voglia di chiudere ed andarsene di fronte a queste cose, ma la colpa è degli insegnanti: pochi sono affidabili e ciò determina una crisi esistenziale della vocalità. Troppi giovani sono sbandati, passano trenta maestri di canto, ma cosa possono fare? Purtroppo moltissimi insegnanti sono in malafede, non si rendono conto del rapporto particolarissimo, quasi un cordone ombelicale, che si crea: puoi chiedere al tuo allievo di fare qualsiasi cosa e lui la fa per te, per il canto. Si sacrificano i più begl’anni della vita cercando qualcosa che poi magari non raggiungerà; io insegno pochissimo però se qualcuno viene da me lo faccio gratis e dico in faccia quello che penso perché è giusto che ognuno sia coscio dei propri limiti. Poi ciascuno è padronissimo di rovinarsi ugualmente la vita, però nel momento in cui tu illudi qualcuno per spillargli i soldi della lezione, per me è soltanto malafede.

A me piace molto lavorare vocalmente in sala, perché se conosci la vocalità non chiedi effetti, ma sai come lavorare tecnicamente all’interpretazione. E’ bene dare degli indizi, degli spunti: la vocalità influisce sulla psiche, quindi il colore trovato nella voce poi si riflette anche nel fraseggio e nella mentalità dell’artista. L’interpretazione è un aspetto assolutamente vocale, non si possono scindere le cose. Non ha senso chiedere ad un cantante il colore della notte o ad un violinista un suono con fuoco: tutto va spiegato tecnicamente, senza giri di parole ma andando al succo del discorso. Certo, per parlar tecnicamente ai cantanti bisogna conoscere la tecnica perché l’artista deve fidarsi di te, bisogna costruire un rapporto che va curato, con calma, perché so che non è facile fidarsi di un direttore che insegna canto.
Progetti?

Gli impegni futuri sono molti, da quando son tornato in Italia sono arrivato con una certa facilià a livelli abbastanza buoni ho bisogno di riflettere e pensare al futuro. Vorrei fare in modo che la posizione che sto raggiungendo mi serva per aiutare gli altri, in particolare i giovani cantanti: il mio sogno sarebbe, nei prossimi anni, insegnare molto di più e fondare un’accademia di canto, creare qualcosa di nuovo in questo senso mi piacerebbe molto.

di Roberta Pedrotti

Da qualche anno il nome di Renato Palumbo si sta imponendo nei maggiori teatri lirici grazie alle doti sempre più rare di autentico concertatore, moderno erede della tradizione italiana inaugurata da Toscanini ma pure interlocutore brillante e intelligente, col quale, innanzitutto, abbiamo percorso le tappe iniziali della sua carriera:

Ho cominciato ad interessarmi di musica da bambino, col pianoforte poi cantando in un coro di chiesa, che a volte, dai dodici tredici anni dirigevo anche. Così, con il coro e l’orchestra di Montebelluna già a sedici anni diressi la Teresienmesse di Haydn. Da un paio d’anni mi ero avvicinato e subito innamorato della musica lirica frequentando un tenore che dava lezioni nel mio paese. Cominciai prestissimo a lavorare in teatro come pianista, poi come suggeritore e maestro del coro; già nel ’83 ero maestro di coro a Bari e del coro Cilea di Reggio Calabria, che avevo fondato nell’81, ed ero suggeritore a Jesi. Allora non pensavo che avrei fatto il direttore, amavo stare in teatro, l’atmosfera goliardica e spensierata del palcoscenico, che adesso mi manca un po’. Nell’83, però, un impresario mi propose di debuttare col Trovatore in Sicilia, in stagioni di provincia, dove ho poi concertato opere come Traviata, Butterfly, Bohème. Dopo il servizio militare,nell’84-85,però sono uscito dal giro e allora ho deciso di completare gli studi di Composizione, direzione di Coro, direzione d’orchestra. Intanto mi capitava ancora di lavorare qualche volta in provincia, dove ho conosciuto un baritono turco che ha fatto il mio nome ad Istanbul. Mi chiamarono per tre recite di Trovatore e rimasi invece sei anni come direttore generale del teatro, un teatro alla tedesca con recite ogni sera. Cominciai così a prendere contatti che mi portarono a Macao, dove sono stato direttore musicale dal ’90 al ’99, in Sudafrica, Giappone, Spagna, in Germania e quindi in Francia, dove mi vide Sergio Segalini scritturandomi subito per il festival di Martina Franca. Così nel ’98 sono rientrato in Italia dopo 10 anni e da lì le cose sono state abbastanza semplici, sono entrato facilmente nei grossi teatri. Una serie di occasioni, quindi, sperate e non sperate, perché per fare il direttore ci vuole una certa bravura, ma anche la componente fortunosa è molto forte.
Il suo repertorio è molto vasto

All’estero ho avuto modo di affrontare già moltissimi titoli e desidero occuparmi un po’ di tutti i repertori: quest’estate tornerò a Pesaro, dove ho diretto Adina lo scorso anno, per l’Elisabetta regina d’Inghilterra, poi alla Scala dopo la Lucrezia Borgia del 2000 dirigerò Beatrice di Tenda, a Cagliari l’Hans Heiling di Meshner, a Martina Franca ho fatto per due volte Meyerbeer, Robert le diable e Les huguenots. Credo sia meglio non fossilizzarsi su un repertorio ma spaziare dal belcanto fino al ‘900: è impensabile far bene l’ultimo Verdi se non si conosce il primo Verdi e questo senza conoscere Bellini e Donizetti. E’ importante avere sempre una visione molto ampia del repertorio, dalle origini, da Rossini e se possibile anche da Monteverdi, e saper guardare al melodramma in prospettiva storica, senza dimenticare le basi del belcanto italiano anche nell’opera verista, altrimenti ci si ferma ai grandi effetti, riducendo i cantanti a degli urlatori.
Partiamo dunque da Rossini e dal festival di Pesaro.

Adina è stata la prima cosa che mi hanno offerto al Rossini Opera Festival, un’opera considerata minore che si voleva valorizzare e che ho accettato anche per conoscere quell’ambiente. E’ un’opera molto particolare ed ho pensato di renderla più agile alleggerendo i recitativi. Trovo che il fortepiano ed il continuo di violoncello e contrabbasso utilizzati nell’edizione del ’99 legassero molto l’opera, ho messo il solo clavicembalo, che rendeva tutto più snello. In più abbiamo aggiunto un numero di coro ed un recitativo che illustravano meglio la vicenda. Credo che così l’opera abbia acquistato maggiore autonomia e risultasse meglio definita.
L’Elisabetta non è mai stata fatta a Pesaro, inoltre è appena uscita l’edizione critica curata da Gossett. Il materiale mi è appena arrivato, quindi devo ancora vederlo bene, ho parlato con Daniele Abbado, che ne curerà la regia, e stiamo cercando di trovare qualcosa per rendere ancor più interessante la produzione.

Il suo rapporto con la filologia?

Secondo me la filologia dev’essere al servizio dell’esecutore, non pura informazione fine a se stessa. Ne ho discusso anche con Gossett in occasione del Gustavo III a Napoli: noi interpreti, più dei dettagli storici, vorremmo avere dalla filologia un apporto pratico, esecutivo, perché altrimenti si rischia di diventare schiavi del nulla. Ci sono opere, ad esempio, che avevano bisogno di essere completamente ripulite dal punto di vista filologico, come ha fatto il Maestro Zedda per il Barbiere di Siviglia: un lavoro quasi estremo, ma necessario perché l’opera nel tempo aveva subito molti cambiamenti. Purtroppo però, ed è un caso differente, ci sono invece delle questioni che si nascondono dietro la filologia per rinnovare i diritti. Quello dei filologi è un ambiente molto particolare, ma l’importante è sempre che non prevalga mai il fanatismo. In fondo il melodramma un tempo non era non come lo consideriamo oggi: il pubblico andava a teatro e se gli piaceva, se c’era il grande cantante, la grande romanza, il grande acuto tornava e se no non ci andava più. Non dobbiamo mai dimenticarci che il melodramma nasce dalla tragedia greca, che era la forma più completa di teatro, ed oggi non possiamo renderlo asettico incolpandone la filologia. Può farci comodo perché non abbiamo più le grandi voci che possono fare certi repertori, ma è un altro discorso, non nascondiamoci dietro la filologia! Questa è fondamentale da un punto di vista informativo: ho bisogno di conoscere filologicamente la storia dell’opera e delle sue edizioni. Non dimentichiamoci però che il nostro teatro vive anche di tradizione e grandi maestri come Toscanini, Votto, in particolare Serafin erano grandi uomini di teatro e le loro scelte, anche criticabili, non erano mai fatte stupidamente.

Non si deve, quindi, rinnegare il teatro, la tradizione. A ben guardare, poi, proprio la tradizione, l’uso, fa parte a suo modo della filologia. Il do della pira, ad esempio, è una tradizione che deriva dalla situazione drammatica, per cui il tenore esprime la sua forza in questa puntatura acuta, perché negargliela se può farla? Se non ce l’ha e vogliamo rischiare meno, togliamola, però è una questione, secondo me, drammaturgica, dal punto di vista filologico, farla o meno non cambia nulla.

Tutto il primo Verdi fino al ’57, al primo Boccanegra, presenta arie con cabalette ripetute, che devono essere variate, altrimenti è come ascoltare un disco due volte, non ha senso. Eppure noi tradizionalmente non le facciamo quasi mai, soprattutto per le voci maschili. Purtroppo però il filologo offre molto di rado gli strumenti per realizzare delle corrette variazioni, mentre ci informa su ogni dettaglio dell’autografo, importante per lo studioso, molto meno per l’esecutore. Ho discusso con questo con Gossett, che mi ha dato ragione, ma ha anche sottolineato un altro aspetto: sono i filologi ad aver bisogno degli esecutori che provano sul campo l’applicazione dei loro studi. Questo però non è facile: quest’anno a Pesaro ho trovato grosse difficoltà ed ho dovuto impormi per sostituire il fortepiano e il basso continuo con il cembalo solo. Poi tutti siamo stati d’accordo, ma prima sembrava di toccare un esplosivo: perché nasconderci dietro a queste cose, piccolezze in confronto all’immensità della drammaturgia d’un’opera lirica? In questo modo la filologia finisce per sembrare la arida, ma non lo è.

E per quanto riguarda i tagli?

Si può tagliare un da capo per venire incontro alle difficoltà di un cantante, inoltre il da capo non ha bisogno solo di variazioni musicali, ma deve essere anche sostenuto da un aspetto drammatico, scenico. Se dal punto di vista registico tutto si blocca ci troviamo bloccati anche noi. Anche per questo motivo cerco sempre di avere un rapporto costruttivo con i registi, mi piace molto andare a tutte le prove di scena e nella maggior parte dei casi abbiamo dei rapporti ottimi. Oggi è impensabile tornare alle regie di 30-40 anni fa, il gusto del pubblico è cambiato, sono cambiati i tempi d’espressione e la soglia d’attenzione, anche per l’influenza della televisione. E’ un fatto anche culturale, di ritmi di vita che sono cambiati. Oggi noi abbiamo quindi nuovi obblighi estetici: il teatro deve avere un ritmo quasi da musical, incalzante, i cantanti devono essere anche attori, oggi si richiede loro molto di più. Il direttore ha dunque il duplice compito di rendere la partitura più sinfonica possibile, perché oggi non c’è più differenza fra direttore sinfonico e direttore lirico, e di cercare di aiutare il regista a mettere in scena quello che ha in mente, perché se ha delle idee ha anche bisogno di essere sostenuto dal direttore. Il problema oggi è sempre drammaturgico: non esistono regie belle e regie brutte, esistono regie stupide e regie intelligenti. Ci può essere benissimo un allestimento pazzoide, si può anche contestare, però ci si deve sempre chiedere se ha dato quello che il pezzo voleva. Se la risposta è sì il regista ha avuto ragione, altrimenti ha avuto torto, è partito da un’idea iniziale e non è stato più capace di muoversi. Non possiamo più ritornare indietro e se non ci sono più i soldi per fare il teatro sperimentale bisogna fare in modo che questa collaborazione fra musica e teatro sia molto più forte di prima nel rispetto della drammaturgia, della musica, della partitura e degli artisti.

Lei è forse l’ultimo esponente della tradizione dei grandi direttori d’opera italiani.

Io ho avuto la grande fortuna di cominciare da piccolo a frequentare il teatro, ho studiato canto e quindi so anche trattare vocalmente gli artisti. Faccio dei masterclass e allora tutto diventa più facile, perché l’artista sa che il direttore lo fa respirare, capisce i suoi problemi tecnici. Un direttore che non viene dal teatro, per quanto bravo, non potrà mai capire bene cosa vuol dire stare sul palco, quali siano i problemi pratici della scena. E’ facile dire “Andate a tempo, seguitemi”, ma i cantanti o i cori non vogliono andar fuori: hanno dei problemi che un direttore nato in teatro può risolvere più facilmente. Oggi purtroppo manca una vera scuola di teatro, anche perché manca la lirica minore, che costava molto ed aveva anche una brutta nomea; dopo aver lavorato nei teatri minori per passare negli enti italiani io ho dovuto stare all’estero 10 anni, perché il mio nome, se mai l’avessero imparato, fosse dimenticato. Altrimenti sarai sempre considerato direttore da provincia, quando spesso questi sanno risolvere un allestimento molto meglio di un grande direttore in un grande teatro, perché se in pochissime prove riesci a far quadrare uno spettacolo sei sicuramente un ottimo direttore: è nei casi disperati che esce l’istinto, la cosa più bella qualità per un direttore. Con un grande istinto poi tutto funziona.

Un tempo, poi, c’era una vera abitudine al canto, nelle chiese per esempio. L’epoca d’oro delle voci è stata nel dopoguerra, quando la gente che voleva dimenticare, ma anche raggiungere qualcosa soffrendo; oggi si ottiene troppo senza sacrifici, ma sono cose che durano poco e si apprezzano molto meno. Io per esempio nella mia vita ho sofferto abbastanza, i primi anni sono stati molto duri e mi hanno formato sia come uomo sia come musicista. Ringrazio Dio per questo, perché ho avuto la possibilità di apprendere con fatica, così posso goderne i frutti, che altrimenti vivrei in modo molto più spensierato, ma anche più superficiale.

Parliamo di un importante debutto imminente, Hans Heiling di Marschner a Cagliari

E’ veramente molto interessante. L’opera è contemporanea di Robert le diable, di Norma e delle grandi opere belcantistiche. Vediamo dunque in tutta Europa opere che rappresentano l’identità di un popolo e la sua vocazione: noi il belcanto, in Germania il dramma, con recitativi già molto forti, in Francia Meyerbeer che era già avanti di vent’anni rispetto agli altri, un po’ perché l’origine tedesca, ma soprattutto perché Parigi era il fulcro ed il crocevia della vita artistica europea. La prassi esecutiva per questo come per tutto il repertorio dev’essere quella della logicità: innanzitutto lo studio del libretto, quindi l’analisi metrica di tutta l’opera, perché solo così si capisce quanto l’autore fosse ispirato. Ci sono autori assolutamente liberi nella composizione, e questa grande libertà emerge anche nell’esecuzione e all’ascolto, invece altri sono molto rigidi nella costruzione metrica dell’opera e vanno presi un po’ alla tedesca, con molta precisione. Non posso dire “Faccio Merschner quindi la prassi esecutiva sarà assolutamente tedesca”; l’idea mi sarà data dallo studio approfondito della partitura, dalle sensazioni che avrò, dall’allestimento, dai cantanti…Altrimenti è meglio cambiar mestiere subito, si deve arrivare sempre senza alcun pregiudizio. L’idea dev’essere semplicemente fare l’opera com’è, adattandola come un vestito per i cantanti e dell’orchestra con cui si lavora, tenendo presente che a qualità d’orchestra corrisponde poi qualità d’esecuzione e anche qualità di ricerca da parte del direttore: se l’orchestra non è buona bisogna farla andare insieme, se hai un’orchestra molto buona, cerchi di fare musica lavorando su suoni e dettagli. Dipende tutto dall’esperienza e la prassi esecutiva, secondo me, s’impara col tempo.
Abbiamo nominato Meyerbeer, che con le sue recenti prove a Martina Franca ha contribuito a riscoprire…

Les Huguenots sono un’opera di una drammaticità che in Italia troviamo solo trent’anni dopo. Purtroppo a lungo si è parlato di Meyerbeer, del grand opèra senza conoscerlo, se non per modo di dire: se Meyerbeer fino alla fine dell’800 era in tutti i teatri con la pulizia razziale nazista e fascista è scomparso. Inoltre era troppo difficile da eseguire, come lo è oggi per durata, complessità scenica musicale e vocale, anche nei ruoli minori. Oggi però ci sono dei titoli che devono rientrare nel repertorio almeno dei grandissimi teatri, che ormai, invece, limitano il repertorio sempre più all’indietro. Ci sono meno rischi esecutivi, ma in questo modo si uccidono le grandi voci, non si da la possibilità a nessuno di emergere nel grande repertorio. Non è vero tanto che non ci siano cantanti, quanto che se certe opere non si eseguono non ci saranno mai! Così i repertori dei cantanti sono spesso falsati: il lirico fa il lirico spinto abbondante quasi drammatico, il tenore leggero il lirico pieno. Oggi si è persa la strada e non so se la ritroveremo. Purtroppo tanti cantanti arrivano a un’audizione con Nessun dorma, Che gelida manina, Quanto è bella quanto è cara tutto insieme. Verrebbe voglia di chiudere ed andarsene di fronte a queste cose, ma la colpa è degli insegnanti: pochi sono affidabili e ciò determina una crisi esistenziale della vocalità. Troppi giovani sono sbandati, passano trenta maestri di canto, ma cosa possono fare? Purtroppo moltissimi insegnanti sono in malafede, non si rendono conto del rapporto particolarissimo, quasi un cordone ombelicale, che si crea: puoi chiedere al tuo allievo di fare qualsiasi cosa e lui la fa per te, per il canto. Si sacrificano i più begl’anni della vita cercando qualcosa che poi magari non raggiungerà; io insegno pochissimo però se qualcuno viene da me lo faccio gratis e dico in faccia quello che penso perché è giusto che ognuno sia coscio dei propri limiti. Poi ciascuno è padronissimo di rovinarsi ugualmente la vita, però nel momento in cui tu illudi qualcuno per spillargli i soldi della lezione, per me è soltanto malafede.

A me piace molto lavorare vocalmente in sala, perché se conosci la vocalità non chiedi effetti, ma sai come lavorare tecnicamente all’interpretazione. E’ bene dare degli indizi, degli spunti: la vocalità influisce sulla psiche, quindi il colore trovato nella voce poi si riflette anche nel fraseggio e nella mentalità dell’artista. L’interpretazione è un aspetto assolutamente vocale, non si possono scindere le cose. Non ha senso chiedere ad un cantante il colore della notte o ad un violinista un suono con fuoco: tutto va spiegato tecnicamente, senza giri di parole ma andando al succo del discorso. Certo, per parlar tecnicamente ai cantanti bisogna conoscere la tecnica perché l’artista deve fidarsi di te, bisogna costruire un rapporto che va curato, con calma, perché so che non è facile fidarsi di un direttore che insegna canto.
Progetti?

Gli impegni futuri sono molti, da quando son tornato in Italia sono arrivato con una certa facilià a livelli abbastanza buoni ho bisogno di riflettere e pensare al futuro. Vorrei fare in modo che la posizione che sto raggiungendo mi serva per aiutare gli altri, in particolare i giovani cantanti: il mio sogno sarebbe, nei prossimi anni, insegnare molto di più e fondare un’accademia di canto, creare qualcosa di nuovo in questo senso mi piacerebbe molto.

di Roberta Pedrotti

Da qualche anno il nome di Renato Palumbo si sta imponendo nei maggiori teatri lirici grazie alle doti sempre più rare di autentico concertatore, moderno erede della tradizione italiana inaugurata da Toscanini ma pure interlocutore brillante e intelligente, col quale, innanzitutto, abbiamo percorso le tappe iniziali della sua carriera:

Ho cominciato ad interessarmi di musica da bambino, col pianoforte poi cantando in un coro di chiesa, che a volte, dai dodici tredici anni dirigevo anche. Così, con il coro e l’orchestra di Montebelluna già a sedici anni diressi la Teresienmesse di Haydn. Da un paio d’anni mi ero avvicinato e subito innamorato della musica lirica frequentando un tenore che dava lezioni nel mio paese. Cominciai prestissimo a lavorare in teatro come pianista, poi come suggeritore e maestro del coro; già nel ’83 ero maestro di coro a Bari e del coro Cilea di Reggio Calabria, che avevo fondato nell’81, ed ero suggeritore a Jesi. Allora non pensavo che avrei fatto il direttore, amavo stare in teatro, l’atmosfera goliardica e spensierata del palcoscenico, che adesso mi manca un po’. Nell’83, però, un impresario mi propose di debuttare col Trovatore in Sicilia, in stagioni di provincia, dove ho poi concertato opere come Traviata, Butterfly, Bohème. Dopo il servizio militare,nell’84-85,però sono uscito dal giro e allora ho deciso di completare gli studi di Composizione, direzione di Coro, direzione d’orchestra. Intanto mi capitava ancora di lavorare qualche volta in provincia, dove ho conosciuto un baritono turco che ha fatto il mio nome ad Istanbul. Mi chiamarono per tre recite di Trovatore e rimasi invece sei anni come direttore generale del teatro, un teatro alla tedesca con recite ogni sera. Cominciai così a prendere contatti che mi portarono a Macao, dove sono stato direttore musicale dal ’90 al ’99, in Sudafrica, Giappone, Spagna, in Germania e quindi in Francia, dove mi vide Sergio Segalini scritturandomi subito per il festival di Martina Franca. Così nel ’98 sono rientrato in Italia dopo 10 anni e da lì le cose sono state abbastanza semplici, sono entrato facilmente nei grossi teatri. Una serie di occasioni, quindi, sperate e non sperate, perché per fare il direttore ci vuole una certa bravura, ma anche la componente fortunosa è molto forte.
Il suo repertorio è molto vasto

All’estero ho avuto modo di affrontare già moltissimi titoli e desidero occuparmi un po’ di tutti i repertori: quest’estate tornerò a Pesaro, dove ho diretto Adina lo scorso anno, per l’Elisabetta regina d’Inghilterra, poi alla Scala dopo la Lucrezia Borgia del 2000 dirigerò Beatrice di Tenda, a Cagliari l’Hans Heiling di Meshner, a Martina Franca ho fatto per due volte Meyerbeer, Robert le diable e Les huguenots. Credo sia meglio non fossilizzarsi su un repertorio ma spaziare dal belcanto fino al ‘900: è impensabile far bene l’ultimo Verdi se non si conosce il primo Verdi e questo senza conoscere Bellini e Donizetti. E’ importante avere sempre una visione molto ampia del repertorio, dalle origini, da Rossini e se possibile anche da Monteverdi, e saper guardare al melodramma in prospettiva storica, senza dimenticare le basi del belcanto italiano anche nell’opera verista, altrimenti ci si ferma ai grandi effetti, riducendo i cantanti a degli urlatori.
Partiamo dunque da Rossini e dal festival di Pesaro.

Adina è stata la prima cosa che mi hanno offerto al Rossini Opera Festival, un’opera considerata minore che si voleva valorizzare e che ho accettato anche per conoscere quell’ambiente. E’ un’opera molto particolare ed ho pensato di renderla più agile alleggerendo i recitativi. Trovo che il fortepiano ed il continuo di violoncello e contrabbasso utilizzati nell’edizione del ’99 legassero molto l’opera, ho messo il solo clavicembalo, che rendeva tutto più snello. In più abbiamo aggiunto un numero di coro ed un recitativo che illustravano meglio la vicenda. Credo che così l’opera abbia acquistato maggiore autonomia e risultasse meglio definita.
L’Elisabetta non è mai stata fatta a Pesaro, inoltre è appena uscita l’edizione critica curata da Gossett. Il materiale mi è appena arrivato, quindi devo ancora vederlo bene, ho parlato con Daniele Abbado, che ne curerà la regia, e stiamo cercando di trovare qualcosa per rendere ancor più interessante la produzione.

Il suo rapporto con la filologia?

Secondo me la filologia dev’essere al servizio dell’esecutore, non pura informazione fine a se stessa. Ne ho discusso anche con Gossett in occasione del Gustavo III a Napoli: noi interpreti, più dei dettagli storici, vorremmo avere dalla filologia un apporto pratico, esecutivo, perché altrimenti si rischia di diventare schiavi del nulla. Ci sono opere, ad esempio, che avevano bisogno di essere completamente ripulite dal punto di vista filologico, come ha fatto il Maestro Zedda per il Barbiere di Siviglia: un lavoro quasi estremo, ma necessario perché l’opera nel tempo aveva subito molti cambiamenti. Purtroppo però, ed è un caso differente, ci sono invece delle questioni che si nascondono dietro la filologia per rinnovare i diritti. Quello dei filologi è un ambiente molto particolare, ma l’importante è sempre che non prevalga mai il fanatismo. In fondo il melodramma un tempo non era non come lo consideriamo oggi: il pubblico andava a teatro e se gli piaceva, se c’era il grande cantante, la grande romanza, il grande acuto tornava e se no non ci andava più. Non dobbiamo mai dimenticarci che il melodramma nasce dalla tragedia greca, che era la forma più completa di teatro, ed oggi non possiamo renderlo asettico incolpandone la filologia. Può farci comodo perché non abbiamo più le grandi voci che possono fare certi repertori, ma è un altro discorso, non nascondiamoci dietro la filologia! Questa è fondamentale da un punto di vista informativo: ho bisogno di conoscere filologicamente la storia dell’opera e delle sue edizioni. Non dimentichiamoci però che il nostro teatro vive anche di tradizione e grandi maestri come Toscanini, Votto, in particolare Serafin erano grandi uomini di teatro e le loro scelte, anche criticabili, non erano mai fatte stupidamente.

Non si deve, quindi, rinnegare il teatro, la tradizione. A ben guardare, poi, proprio la tradizione, l’uso, fa parte a suo modo della filologia. Il do della pira, ad esempio, è una tradizione che deriva dalla situazione drammatica, per cui il tenore esprime la sua forza in questa puntatura acuta, perché negargliela se può farla? Se non ce l’ha e vogliamo rischiare meno, togliamola, però è una questione, secondo me, drammaturgica, dal punto di vista filologico, farla o meno non cambia nulla.

Tutto il primo Verdi fino al ’57, al primo Boccanegra, presenta arie con cabalette ripetute, che devono essere variate, altrimenti è come ascoltare un disco due volte, non ha senso. Eppure noi tradizionalmente non le facciamo quasi mai, soprattutto per le voci maschili. Purtroppo però il filologo offre molto di rado gli strumenti per realizzare delle corrette variazioni, mentre ci informa su ogni dettaglio dell’autografo, importante per lo studioso, molto meno per l’esecutore. Ho discusso con questo con Gossett, che mi ha dato ragione, ma ha anche sottolineato un altro aspetto: sono i filologi ad aver bisogno degli esecutori che provano sul campo l’applicazione dei loro studi. Questo però non è facile: quest’anno a Pesaro ho trovato grosse difficoltà ed ho dovuto impormi per sostituire il fortepiano e il basso continuo con il cembalo solo. Poi tutti siamo stati d’accordo, ma prima sembrava di toccare un esplosivo: perché nasconderci dietro a queste cose, piccolezze in confronto all’immensità della drammaturgia d’un’opera lirica? In questo modo la filologia finisce per sembrare la arida, ma non lo è.

E per quanto riguarda i tagli?

Si può tagliare un da capo per venire incontro alle difficoltà di un cantante, inoltre il da capo non ha bisogno solo di variazioni musicali, ma deve essere anche sostenuto da un aspetto drammatico, scenico. Se dal punto di vista registico tutto si blocca ci troviamo bloccati anche noi. Anche per questo motivo cerco sempre di avere un rapporto costruttivo con i registi, mi piace molto andare a tutte le prove di scena e nella maggior parte dei casi abbiamo dei rapporti ottimi. Oggi è impensabile tornare alle regie di 30-40 anni fa, il gusto del pubblico è cambiato, sono cambiati i tempi d’espressione e la soglia d’attenzione, anche per l’influenza della televisione. E’ un fatto anche culturale, di ritmi di vita che sono cambiati. Oggi noi abbiamo quindi nuovi obblighi estetici: il teatro deve avere un ritmo quasi da musical, incalzante, i cantanti devono essere anche attori, oggi si richiede loro molto di più. Il direttore ha dunque il duplice compito di rendere la partitura più sinfonica possibile, perché oggi non c’è più differenza fra direttore sinfonico e direttore lirico, e di cercare di aiutare il regista a mettere in scena quello che ha in mente, perché se ha delle idee ha anche bisogno di essere sostenuto dal direttore. Il problema oggi è sempre drammaturgico: non esistono regie belle e regie brutte, esistono regie stupide e regie intelligenti. Ci può essere benissimo un allestimento pazzoide, si può anche contestare, però ci si deve sempre chiedere se ha dato quello che il pezzo voleva. Se la risposta è sì il regista ha avuto ragione, altrimenti ha avuto torto, è partito da un’idea iniziale e non è stato più capace di muoversi. Non possiamo più ritornare indietro e se non ci sono più i soldi per fare il teatro sperimentale bisogna fare in modo che questa collaborazione fra musica e teatro sia molto più forte di prima nel rispetto della drammaturgia, della musica, della partitura e degli artisti.

Lei è forse l’ultimo esponente della tradizione dei grandi direttori d’opera italiani.

Io ho avuto la grande fortuna di cominciare da piccolo a frequentare il teatro, ho studiato canto e quindi so anche trattare vocalmente gli artisti. Faccio dei masterclass e allora tutto diventa più facile, perché l’artista sa che il direttore lo fa respirare, capisce i suoi problemi tecnici. Un direttore che non viene dal teatro, per quanto bravo, non potrà mai capire bene cosa vuol dire stare sul palco, quali siano i problemi pratici della scena. E’ facile dire “Andate a tempo, seguitemi”, ma i cantanti o i cori non vogliono andar fuori: hanno dei problemi che un direttore nato in teatro può risolvere più facilmente. Oggi purtroppo manca una vera scuola di teatro, anche perché manca la lirica minore, che costava molto ed aveva anche una brutta nomea; dopo aver lavorato nei teatri minori per passare negli enti italiani io ho dovuto stare all’estero 10 anni, perché il mio nome, se mai l’avessero imparato, fosse dimenticato. Altrimenti sarai sempre considerato direttore da provincia, quando spesso questi sanno risolvere un allestimento molto meglio di un grande direttore in un grande teatro, perché se in pochissime prove riesci a far quadrare uno spettacolo sei sicuramente un ottimo direttore: è nei casi disperati che esce l’istinto, la cosa più bella qualità per un direttore. Con un grande istinto poi tutto funziona.

Un tempo, poi, c’era una vera abitudine al canto, nelle chiese per esempio. L’epoca d’oro delle voci è stata nel dopoguerra, quando la gente che voleva dimenticare, ma anche raggiungere qualcosa soffrendo; oggi si ottiene troppo senza sacrifici, ma sono cose che durano poco e si apprezzano molto meno. Io per esempio nella mia vita ho sofferto abbastanza, i primi anni sono stati molto duri e mi hanno formato sia come uomo sia come musicista. Ringrazio Dio per questo, perché ho avuto la possibilità di apprendere con fatica, così posso goderne i frutti, che altrimenti vivrei in modo molto più spensierato, ma anche più superficiale.

Parliamo di un importante debutto imminente, Hans Heiling di Marschner a Cagliari

E’ veramente molto interessante. L’opera è contemporanea di Robert le diable, di Norma e delle grandi opere belcantistiche. Vediamo dunque in tutta Europa opere che rappresentano l’identità di un popolo e la sua vocazione: noi il belcanto, in Germania il dramma, con recitativi già molto forti, in Francia Meyerbeer che era già avanti di vent’anni rispetto agli altri, un po’ perché l’origine tedesca, ma soprattutto perché Parigi era il fulcro ed il crocevia della vita artistica europea. La prassi esecutiva per questo come per tutto il repertorio dev’essere quella della logicità: innanzitutto lo studio del libretto, quindi l’analisi metrica di tutta l’opera, perché solo così si capisce quanto l’autore fosse ispirato. Ci sono autori assolutamente liberi nella composizione, e questa grande libertà emerge anche nell’esecuzione e all’ascolto, invece altri sono molto rigidi nella costruzione metrica dell’opera e vanno presi un po’ alla tedesca, con molta precisione. Non posso dire “Faccio Merschner quindi la prassi esecutiva sarà assolutamente tedesca”; l’idea mi sarà data dallo studio approfondito della partitura, dalle sensazioni che avrò, dall’allestimento, dai cantanti…Altrimenti è meglio cambiar mestiere subito, si deve arrivare sempre senza alcun pregiudizio. L’idea dev’essere semplicemente fare l’opera com’è, adattandola come un vestito per i cantanti e dell’orchestra con cui si lavora, tenendo presente che a qualità d’orchestra corrisponde poi qualità d’esecuzione e anche qualità di ricerca da parte del direttore: se l’orchestra non è buona bisogna farla andare insieme, se hai un’orchestra molto buona, cerchi di fare musica lavorando su suoni e dettagli. Dipende tutto dall’esperienza e la prassi esecutiva, secondo me, s’impara col tempo.
Abbiamo nominato Meyerbeer, che con le sue recenti prove a Martina Franca ha contribuito a riscoprire…

Les Huguenots sono un’opera di una drammaticità che in Italia troviamo solo trent’anni dopo. Purtroppo a lungo si è parlato di Meyerbeer, del grand opèra senza conoscerlo, se non per modo di dire: se Meyerbeer fino alla fine dell’800 era in tutti i teatri con la pulizia razziale nazista e fascista è scomparso. Inoltre era troppo difficile da eseguire, come lo è oggi per durata, complessità scenica musicale e vocale, anche nei ruoli minori. Oggi però ci sono dei titoli che devono rientrare nel repertorio almeno dei grandissimi teatri, che ormai, invece, limitano il repertorio sempre più all’indietro. Ci sono meno rischi esecutivi, ma in questo modo si uccidono le grandi voci, non si da la possibilità a nessuno di emergere nel grande repertorio. Non è vero tanto che non ci siano cantanti, quanto che se certe opere non si eseguono non ci saranno mai! Così i repertori dei cantanti sono spesso falsati: il lirico fa il lirico spinto abbondante quasi drammatico, il tenore leggero il lirico pieno. Oggi si è persa la strada e non so se la ritroveremo. Purtroppo tanti cantanti arrivano a un’audizione con Nessun dorma, Che gelida manina, Quanto è bella quanto è cara tutto insieme. Verrebbe voglia di chiudere ed andarsene di fronte a queste cose, ma la colpa è degli insegnanti: pochi sono affidabili e ciò determina una crisi esistenziale della vocalità. Troppi giovani sono sbandati, passano trenta maestri di canto, ma cosa possono fare? Purtroppo moltissimi insegnanti sono in malafede, non si rendono conto del rapporto particolarissimo, quasi un cordone ombelicale, che si crea: puoi chiedere al tuo allievo di fare qualsiasi cosa e lui la fa per te, per il canto. Si sacrificano i più begl’anni della vita cercando qualcosa che poi magari non raggiungerà; io insegno pochissimo però se qualcuno viene da me lo faccio gratis e dico in faccia quello che penso perché è giusto che ognuno sia coscio dei propri limiti. Poi ciascuno è padronissimo di rovinarsi ugualmente la vita, però nel momento in cui tu illudi qualcuno per spillargli i soldi della lezione, per me è soltanto malafede.

A me piace molto lavorare vocalmente in sala, perché se conosci la vocalità non chiedi effetti, ma sai come lavorare tecnicamente all’interpretazione. E’ bene dare degli indizi, degli spunti: la vocalità influisce sulla psiche, quindi il colore trovato nella voce poi si riflette anche nel fraseggio e nella mentalità dell’artista. L’interpretazione è un aspetto assolutamente vocale, non si possono scindere le cose. Non ha senso chiedere ad un cantante il colore della notte o ad un violinista un suono con fuoco: tutto va spiegato tecnicamente, senza giri di parole ma andando al succo del discorso. Certo, per parlar tecnicamente ai cantanti bisogna conoscere la tecnica perché l’artista deve fidarsi di te, bisogna costruire un rapporto che va curato, con calma, perché so che non è facile fidarsi di un direttore che insegna canto.
Progetti?

Gli impegni futuri sono molti, da quando son tornato in Italia sono arrivato con una certa facilià a livelli abbastanza buoni ho bisogno di riflettere e pensare al futuro. Vorrei fare in modo che la posizione che sto raggiungendo mi serva per aiutare gli altri, in particolare i giovani cantanti: il mio sogno sarebbe, nei prossimi anni, insegnare molto di più e fondare un’accademia di canto, creare qualcosa di nuovo in questo senso mi piacerebbe molto.

di Roberta Pedrotti

Da qualche anno il nome di Renato Palumbo si sta imponendo nei maggiori teatri lirici grazie alle doti sempre più rare di autentico concertatore, moderno erede della tradizione italiana inaugurata da Toscanini ma pure interlocutore brillante e intelligente, col quale, innanzitutto, abbiamo percorso le tappe iniziali della sua carriera:

Ho cominciato ad interessarmi di musica da bambino, col pianoforte poi cantando in un coro di chiesa, che a volte, dai dodici tredici anni dirigevo anche. Così, con il coro e l’orchestra di Montebelluna già a sedici anni diressi la Teresienmesse di Haydn. Da un paio d’anni mi ero avvicinato e subito innamorato della musica lirica frequentando un tenore che dava lezioni nel mio paese. Cominciai prestissimo a lavorare in teatro come pianista, poi come suggeritore e maestro del coro; già nel ’83 ero maestro di coro a Bari e del coro Cilea di Reggio Calabria, che avevo fondato nell’81, ed ero suggeritore a Jesi. Allora non pensavo che avrei fatto il direttore, amavo stare in teatro, l’atmosfera goliardica e spensierata del palcoscenico, che adesso mi manca un po’. Nell’83, però, un impresario mi propose di debuttare col Trovatore in Sicilia, in stagioni di provincia, dove ho poi concertato opere come Traviata, Butterfly, Bohème. Dopo il servizio militare,nell’84-85,però sono uscito dal giro e allora ho deciso di completare gli studi di Composizione, direzione di Coro, direzione d’orchestra. Intanto mi capitava ancora di lavorare qualche volta in provincia, dove ho conosciuto un baritono turco che ha fatto il mio nome ad Istanbul. Mi chiamarono per tre recite di Trovatore e rimasi invece sei anni come direttore generale del teatro, un teatro alla tedesca con recite ogni sera. Cominciai così a prendere contatti che mi portarono a Macao, dove sono stato direttore musicale dal ’90 al ’99, in Sudafrica, Giappone, Spagna, in Germania e quindi in Francia, dove mi vide Sergio Segalini scritturandomi subito per il festival di Martina Franca. Così nel ’98 sono rientrato in Italia dopo 10 anni e da lì le cose sono state abbastanza semplici, sono entrato facilmente nei grossi teatri. Una serie di occasioni, quindi, sperate e non sperate, perché per fare il direttore ci vuole una certa bravura, ma anche la componente fortunosa è molto forte.
Il suo repertorio è molto vasto

All’estero ho avuto modo di affrontare già moltissimi titoli e desidero occuparmi un po’ di tutti i repertori: quest’estate tornerò a Pesaro, dove ho diretto Adina lo scorso anno, per l’Elisabetta regina d’Inghilterra, poi alla Scala dopo la Lucrezia Borgia del 2000 dirigerò Beatrice di Tenda, a Cagliari l’Hans Heiling di Meshner, a Martina Franca ho fatto per due volte Meyerbeer, Robert le diable e Les huguenots. Credo sia meglio non fossilizzarsi su un repertorio ma spaziare dal belcanto fino al ‘900: è impensabile far bene l’ultimo Verdi se non si conosce il primo Verdi e questo senza conoscere Bellini e Donizetti. E’ importante avere sempre una visione molto ampia del repertorio, dalle origini, da Rossini e se possibile anche da Monteverdi, e saper guardare al melodramma in prospettiva storica, senza dimenticare le basi del belcanto italiano anche nell’opera verista, altrimenti ci si ferma ai grandi effetti, riducendo i cantanti a degli urlatori.
Partiamo dunque da Rossini e dal festival di Pesaro.

Adina è stata la prima cosa che mi hanno offerto al Rossini Opera Festival, un’opera considerata minore che si voleva valorizzare e che ho accettato anche per conoscere quell’ambiente. E’ un’opera molto particolare ed ho pensato di renderla più agile alleggerendo i recitativi. Trovo che il fortepiano ed il continuo di violoncello e contrabbasso utilizzati nell’edizione del ’99 legassero molto l’opera, ho messo il solo clavicembalo, che rendeva tutto più snello. In più abbiamo aggiunto un numero di coro ed un recitativo che illustravano meglio la vicenda. Credo che così l’opera abbia acquistato maggiore autonomia e risultasse meglio definita.
L’Elisabetta non è mai stata fatta a Pesaro, inoltre è appena uscita l’edizione critica curata da Gossett. Il materiale mi è appena arrivato, quindi devo ancora vederlo bene, ho parlato con Daniele Abbado, che ne curerà la regia, e stiamo cercando di trovare qualcosa per rendere ancor più interessante la produzione.

Il suo rapporto con la filologia?

Secondo me la filologia dev’essere al servizio dell’esecutore, non pura informazione fine a se stessa. Ne ho discusso anche con Gossett in occasione del Gustavo III a Napoli: noi interpreti, più dei dettagli storici, vorremmo avere dalla filologia un apporto pratico, esecutivo, perché altrimenti si rischia di diventare schiavi del nulla. Ci sono opere, ad esempio, che avevano bisogno di essere completamente ripulite dal punto di vista filologico, come ha fatto il Maestro Zedda per il Barbiere di Siviglia: un lavoro quasi estremo, ma necessario perché l’opera nel tempo aveva subito molti cambiamenti. Purtroppo però, ed è un caso differente, ci sono invece delle questioni che si nascondono dietro la filologia per rinnovare i diritti. Quello dei filologi è un ambiente molto particolare, ma l’importante è sempre che non prevalga mai il fanatismo. In fondo il melodramma un tempo non era non come lo consideriamo oggi: il pubblico andava a teatro e se gli piaceva, se c’era il grande cantante, la grande romanza, il grande acuto tornava e se no non ci andava più. Non dobbiamo mai dimenticarci che il melodramma nasce dalla tragedia greca, che era la forma più completa di teatro, ed oggi non possiamo renderlo asettico incolpandone la filologia. Può farci comodo perché non abbiamo più le grandi voci che possono fare certi repertori, ma è un altro discorso, non nascondiamoci dietro la filologia! Questa è fondamentale da un punto di vista informativo: ho bisogno di conoscere filologicamente la storia dell’opera e delle sue edizioni. Non dimentichiamoci però che il nostro teatro vive anche di tradizione e grandi maestri come Toscanini, Votto, in particolare Serafin erano grandi uomini di teatro e le loro scelte, anche criticabili, non erano mai fatte stupidamente.

Non si deve, quindi, rinnegare il teatro, la tradizione. A ben guardare, poi, proprio la tradizione, l’uso, fa parte a suo modo della filologia. Il do della pira, ad esempio, è una tradizione che deriva dalla situazione drammatica, per cui il tenore esprime la sua forza in questa puntatura acuta, perché negargliela se può farla? Se non ce l’ha e vogliamo rischiare meno, togliamola, però è una questione, secondo me, drammaturgica, dal punto di vista filologico, farla o meno non cambia nulla.

Tutto il primo Verdi fino al ’57, al primo Boccanegra, presenta arie con cabalette ripetute, che devono essere variate, altrimenti è come ascoltare un disco due volte, non ha senso. Eppure noi tradizionalmente non le facciamo quasi mai, soprattutto per le voci maschili. Purtroppo però il filologo offre molto di rado gli strumenti per realizzare delle corrette variazioni, mentre ci informa su ogni dettaglio dell’autografo, importante per lo studioso, molto meno per l’esecutore. Ho discusso con questo con Gossett, che mi ha dato ragione, ma ha anche sottolineato un altro aspetto: sono i filologi ad aver bisogno degli esecutori che provano sul campo l’applicazione dei loro studi. Questo però non è facile: quest’anno a Pesaro ho trovato grosse difficoltà ed ho dovuto impormi per sostituire il fortepiano e il basso continuo con il cembalo solo. Poi tutti siamo stati d’accordo, ma prima sembrava di toccare un esplosivo: perché nasconderci dietro a queste cose, piccolezze in confronto all’immensità della drammaturgia d’un’opera lirica? In questo modo la filologia finisce per sembrare la arida, ma non lo è.

E per quanto riguarda i tagli?

Si può tagliare un da capo per venire incontro alle difficoltà di un cantante, inoltre il da capo non ha bisogno solo di variazioni musicali, ma deve essere anche sostenuto da un aspetto drammatico, scenico. Se dal punto di vista registico tutto si blocca ci troviamo bloccati anche noi. Anche per questo motivo cerco sempre di avere un rapporto costruttivo con i registi, mi piace molto andare a tutte le prove di scena e nella maggior parte dei casi abbiamo dei rapporti ottimi. Oggi è impensabile tornare alle regie di 30-40 anni fa, il gusto del pubblico è cambiato, sono cambiati i tempi d’espressione e la soglia d’attenzione, anche per l’influenza della televisione. E’ un fatto anche culturale, di ritmi di vita che sono cambiati. Oggi noi abbiamo quindi nuovi obblighi estetici: il teatro deve avere un ritmo quasi da musical, incalzante, i cantanti devono essere anche attori, oggi si richiede loro molto di più. Il direttore ha dunque il duplice compito di rendere la partitura più sinfonica possibile, perché oggi non c’è più differenza fra direttore sinfonico e direttore lirico, e di cercare di aiutare il regista a mettere in scena quello che ha in mente, perché se ha delle idee ha anche bisogno di essere sostenuto dal direttore. Il problema oggi è sempre drammaturgico: non esistono regie belle e regie brutte, esistono regie stupide e regie intelligenti. Ci può essere benissimo un allestimento pazzoide, si può anche contestare, però ci si deve sempre chiedere se ha dato quello che il pezzo voleva. Se la risposta è sì il regista ha avuto ragione, altrimenti ha avuto torto, è partito da un’idea iniziale e non è stato più capace di muoversi. Non possiamo più ritornare indietro e se non ci sono più i soldi per fare il teatro sperimentale bisogna fare in modo che questa collaborazione fra musica e teatro sia molto più forte di prima nel rispetto della drammaturgia, della musica, della partitura e degli artisti.

Lei è forse l’ultimo esponente della tradizione dei grandi direttori d’opera italiani.

Io ho avuto la grande fortuna di cominciare da piccolo a frequentare il teatro, ho studiato canto e quindi so anche trattare vocalmente gli artisti. Faccio dei masterclass e allora tutto diventa più facile, perché l’artista sa che il direttore lo fa respirare, capisce i suoi problemi tecnici. Un direttore che non viene dal teatro, per quanto bravo, non potrà mai capire bene cosa vuol dire stare sul palco, quali siano i problemi pratici della scena. E’ facile dire “Andate a tempo, seguitemi”, ma i cantanti o i cori non vogliono andar fuori: hanno dei problemi che un direttore nato in teatro può risolvere più facilmente. Oggi purtroppo manca una vera scuola di teatro, anche perché manca la lirica minore, che costava molto ed aveva anche una brutta nomea; dopo aver lavorato nei teatri minori per passare negli enti italiani io ho dovuto stare all’estero 10 anni, perché il mio nome, se mai l’avessero imparato, fosse dimenticato. Altrimenti sarai sempre considerato direttore da provincia, quando spesso questi sanno risolvere un allestimento molto meglio di un grande direttore in un grande teatro, perché se in pochissime prove riesci a far quadrare uno spettacolo sei sicuramente un ottimo direttore: è nei casi disperati che esce l’istinto, la cosa più bella qualità per un direttore. Con un grande istinto poi tutto funziona.

Un tempo, poi, c’era una vera abitudine al canto, nelle chiese per esempio. L’epoca d’oro delle voci è stata nel dopoguerra, quando la gente che voleva dimenticare, ma anche raggiungere qualcosa soffrendo; oggi si ottiene troppo senza sacrifici, ma sono cose che durano poco e si apprezzano molto meno. Io per esempio nella mia vita ho sofferto abbastanza, i primi anni sono stati molto duri e mi hanno formato sia come uomo sia come musicista. Ringrazio Dio per questo, perché ho avuto la possibilità di apprendere con fatica, così posso goderne i frutti, che altrimenti vivrei in modo molto più spensierato, ma anche più superficiale.

Parliamo di un importante debutto imminente, Hans Heiling di Marschner a Cagliari

E’ veramente molto interessante. L’opera è contemporanea di Robert le diable, di Norma e delle grandi opere belcantistiche. Vediamo dunque in tutta Europa opere che rappresentano l’identità di un popolo e la sua vocazione: noi il belcanto, in Germania il dramma, con recitativi già molto forti, in Francia Meyerbeer che era già avanti di vent’anni rispetto agli altri, un po’ perché l’origine tedesca, ma soprattutto perché Parigi era il fulcro ed il crocevia della vita artistica europea. La prassi esecutiva per questo come per tutto il repertorio dev’essere quella della logicità: innanzitutto lo studio del libretto, quindi l’analisi metrica di tutta l’opera, perché solo così si capisce quanto l’autore fosse ispirato. Ci sono autori assolutamente liberi nella composizione, e questa grande libertà emerge anche nell’esecuzione e all’ascolto, invece altri sono molto rigidi nella costruzione metrica dell’opera e vanno presi un po’ alla tedesca, con molta precisione. Non posso dire “Faccio Merschner quindi la prassi esecutiva sarà assolutamente tedesca”; l’idea mi sarà data dallo studio approfondito della partitura, dalle sensazioni che avrò, dall’allestimento, dai cantanti…Altrimenti è meglio cambiar mestiere subito, si deve arrivare sempre senza alcun pregiudizio. L’idea dev’essere semplicemente fare l’opera com’è, adattandola come un vestito per i cantanti e dell’orchestra con cui si lavora, tenendo presente che a qualità d’orchestra corrisponde poi qualità d’esecuzione e anche qualità di ricerca da parte del direttore: se l’orchestra non è buona bisogna farla andare insieme, se hai un’orchestra molto buona, cerchi di fare musica lavorando su suoni e dettagli. Dipende tutto dall’esperienza e la prassi esecutiva, secondo me, s’impara col tempo.
Abbiamo nominato Meyerbeer, che con le sue recenti prove a Martina Franca ha contribuito a riscoprire…

Les Huguenots sono un’opera di una drammaticità che in Italia troviamo solo trent’anni dopo. Purtroppo a lungo si è parlato di Meyerbeer, del grand opèra senza conoscerlo, se non per modo di dire: se Meyerbeer fino alla fine dell’800 era in tutti i teatri con la pulizia razziale nazista e fascista è scomparso. Inoltre era troppo difficile da eseguire, come lo è oggi per durata, complessità scenica musicale e vocale, anche nei ruoli minori. Oggi però ci sono dei titoli che devono rientrare nel repertorio almeno dei grandissimi teatri, che ormai, invece, limitano il repertorio sempre più all’indietro. Ci sono meno rischi esecutivi, ma in questo modo si uccidono le grandi voci, non si da la possibilità a nessuno di emergere nel grande repertorio. Non è vero tanto che non ci siano cantanti, quanto che se certe opere non si eseguono non ci saranno mai! Così i repertori dei cantanti sono spesso falsati: il lirico fa il lirico spinto abbondante quasi drammatico, il tenore leggero il lirico pieno. Oggi si è persa la strada e non so se la ritroveremo. Purtroppo tanti cantanti arrivano a un’audizione con Nessun dorma, Che gelida manina, Quanto è bella quanto è cara tutto insieme. Verrebbe voglia di chiudere ed andarsene di fronte a queste cose, ma la colpa è degli insegnanti: pochi sono affidabili e ciò determina una crisi esistenziale della vocalità. Troppi giovani sono sbandati, passano trenta maestri di canto, ma cosa possono fare? Purtroppo moltissimi insegnanti sono in malafede, non si rendono conto del rapporto particolarissimo, quasi un cordone ombelicale, che si crea: puoi chiedere al tuo allievo di fare qualsiasi cosa e lui la fa per te, per il canto. Si sacrificano i più begl’anni della vita cercando qualcosa che poi magari non raggiungerà; io insegno pochissimo però se qualcuno viene da me lo faccio gratis e dico in faccia quello che penso perché è giusto che ognuno sia coscio dei propri limiti. Poi ciascuno è padronissimo di rovinarsi ugualmente la vita, però nel momento in cui tu illudi qualcuno per spillargli i soldi della lezione, per me è soltanto malafede.

A me piace molto lavorare vocalmente in sala, perché se conosci la vocalità non chiedi effetti, ma sai come lavorare tecnicamente all’interpretazione. E’ bene dare degli indizi, degli spunti: la vocalità influisce sulla psiche, quindi il colore trovato nella voce poi si riflette anche nel fraseggio e nella mentalità dell’artista. L’interpretazione è un aspetto assolutamente vocale, non si possono scindere le cose. Non ha senso chiedere ad un cantante il colore della notte o ad un violinista un suono con fuoco: tutto va spiegato tecnicamente, senza giri di parole ma andando al succo del discorso. Certo, per parlar tecnicamente ai cantanti bisogna conoscere la tecnica perché l’artista deve fidarsi di te, bisogna costruire un rapporto che va curato, con calma, perché so che non è facile fidarsi di un direttore che insegna canto.
Progetti?

Gli impegni futuri sono molti, da quando son tornato in Italia sono arrivato con una certa facilià a livelli abbastanza buoni ho bisogno di riflettere e pensare al futuro. Vorrei fare in modo che la posizione che sto raggiungendo mi serva per aiutare gli altri, in particolare i giovani cantanti: il mio sogno sarebbe, nei prossimi anni, insegnare molto di più e fondare un’accademia di canto, creare qualcosa di nuovo in questo senso mi piacerebbe molto.

di Roberta Pedrotti

Da qualche anno il nome di Renato Palumbo si sta imponendo nei maggiori teatri lirici grazie alle doti sempre più rare di autentico concertatore, moderno erede della tradizione italiana inaugurata da Toscanini ma pure interlocutore brillante e intelligente, col quale, innanzitutto, abbiamo percorso le tappe iniziali della sua carriera:

Ho cominciato ad interessarmi di musica da bambino, col pianoforte poi cantando in un coro di chiesa, che a volte, dai dodici tredici anni dirigevo anche. Così, con il coro e l’orchestra di Montebelluna già a sedici anni diressi la Teresienmesse di Haydn. Da un paio d’anni mi ero avvicinato e subito innamorato della musica lirica frequentando un tenore che dava lezioni nel mio paese. Cominciai prestissimo a lavorare in teatro come pianista, poi come suggeritore e maestro del coro; già nel ’83 ero maestro di coro a Bari e del coro Cilea di Reggio Calabria, che avevo fondato nell’81, ed ero suggeritore a Jesi. Allora non pensavo che avrei fatto il direttore, amavo stare in teatro, l’atmosfera goliardica e spensierata del palcoscenico, che adesso mi manca un po’. Nell’83, però, un impresario mi propose di debuttare col Trovatore in Sicilia, in stagioni di provincia, dove ho poi concertato opere come Traviata, Butterfly, Bohème. Dopo il servizio militare,nell’84-85,però sono uscito dal giro e allora ho deciso di completare gli studi di Composizione, direzione di Coro, direzione d’orchestra. Intanto mi capitava ancora di lavorare qualche volta in provincia, dove ho conosciuto un baritono turco che ha fatto il mio nome ad Istanbul. Mi chiamarono per tre recite di Trovatore e rimasi invece sei anni come direttore generale del teatro, un teatro alla tedesca con recite ogni sera. Cominciai così a prendere contatti che mi portarono a Macao, dove sono stato direttore musicale dal ’90 al ’99, in Sudafrica, Giappone, Spagna, in Germania e quindi in Francia, dove mi vide Sergio Segalini scritturandomi subito per il festival di Martina Franca. Così nel ’98 sono rientrato in Italia dopo 10 anni e da lì le cose sono state abbastanza semplici, sono entrato facilmente nei grossi teatri. Una serie di occasioni, quindi, sperate e non sperate, perché per fare il direttore ci vuole una certa bravura, ma anche la componente fortunosa è molto forte.
Il suo repertorio è molto vasto

All’estero ho avuto modo di affrontare già moltissimi titoli e desidero occuparmi un po’ di tutti i repertori: quest’estate tornerò a Pesaro, dove ho diretto Adina lo scorso anno, per l’Elisabetta regina d’Inghilterra, poi alla Scala dopo la Lucrezia Borgia del 2000 dirigerò Beatrice di Tenda, a Cagliari l’Hans Heiling di Meshner, a Martina Franca ho fatto per due volte Meyerbeer, Robert le diable e Les huguenots. Credo sia meglio non fossilizzarsi su un repertorio ma spaziare dal belcanto fino al ‘900: è impensabile far bene l’ultimo Verdi se non si conosce il primo Verdi e questo senza conoscere Bellini e Donizetti. E’ importante avere sempre una visione molto ampia del repertorio, dalle origini, da Rossini e se possibile anche da Monteverdi, e saper guardare al melodramma in prospettiva storica, senza dimenticare le basi del belcanto italiano anche nell’opera verista, altrimenti ci si ferma ai grandi effetti, riducendo i cantanti a degli urlatori.
Partiamo dunque da Rossini e dal festival di Pesaro.

Adina è stata la prima cosa che mi hanno offerto al Rossini Opera Festival, un’opera considerata minore che si voleva valorizzare e che ho accettato anche per conoscere quell’ambiente. E’ un’opera molto particolare ed ho pensato di renderla più agile alleggerendo i recitativi. Trovo che il fortepiano ed il continuo di violoncello e contrabbasso utilizzati nell’edizione del ’99 legassero molto l’opera, ho messo il solo clavicembalo, che rendeva tutto più snello. In più abbiamo aggiunto un numero di coro ed un recitativo che illustravano meglio la vicenda. Credo che così l’opera abbia acquistato maggiore autonomia e risultasse meglio definita.
L’Elisabetta non è mai stata fatta a Pesaro, inoltre è appena uscita l’edizione critica curata da Gossett. Il materiale mi è appena arrivato, quindi devo ancora vederlo bene, ho parlato con Daniele Abbado, che ne curerà la regia, e stiamo cercando di trovare qualcosa per rendere ancor più interessante la produzione.

Il suo rapporto con la filologia?

Secondo me la filologia dev’essere al servizio dell’esecutore, non pura informazione fine a se stessa. Ne ho discusso anche con Gossett in occasione del Gustavo III a Napoli: noi interpreti, più dei dettagli storici, vorremmo avere dalla filologia un apporto pratico, esecutivo, perché altrimenti si rischia di diventare schiavi del nulla. Ci sono opere, ad esempio, che avevano bisogno di essere completamente ripulite dal punto di vista filologico, come ha fatto il Maestro Zedda per il Barbiere di Siviglia: un lavoro quasi estremo, ma necessario perché l’opera nel tempo aveva subito molti cambiamenti. Purtroppo però, ed è un caso differente, ci sono invece delle questioni che si nascondono dietro la filologia per rinnovare i diritti. Quello dei filologi è un ambiente molto particolare, ma l’importante è sempre che non prevalga mai il fanatismo. In fondo il melodramma un tempo non era non come lo consideriamo oggi: il pubblico andava a teatro e se gli piaceva, se c’era il grande cantante, la grande romanza, il grande acuto tornava e se no non ci andava più. Non dobbiamo mai dimenticarci che il melodramma nasce dalla tragedia greca, che era la forma più completa di teatro, ed oggi non possiamo renderlo asettico incolpandone la filologia. Può farci comodo perché non abbiamo più le grandi voci che possono fare certi repertori, ma è un altro discorso, non nascondiamoci dietro la filologia! Questa è fondamentale da un punto di vista informativo: ho bisogno di conoscere filologicamente la storia dell’opera e delle sue edizioni. Non dimentichiamoci però che il nostro teatro vive anche di tradizione e grandi maestri come Toscanini, Votto, in particolare Serafin erano grandi uomini di teatro e le loro scelte, anche criticabili, non erano mai fatte stupidamente.

Non si deve, quindi, rinnegare il teatro, la tradizione. A ben guardare, poi, proprio la tradizione, l’uso, fa parte a suo modo della filologia. Il do della pira, ad esempio, è una tradizione che deriva dalla situazione drammatica, per cui il tenore esprime la sua forza in questa puntatura acuta, perché negargliela se può farla? Se non ce l’ha e vogliamo rischiare meno, togliamola, però è una questione, secondo me, drammaturgica, dal punto di vista filologico, farla o meno non cambia nulla.

Tutto il primo Verdi fino al ’57, al primo Boccanegra, presenta arie con cabalette ripetute, che devono essere variate, altrimenti è come ascoltare un disco due volte, non ha senso. Eppure noi tradizionalmente non le facciamo quasi mai, soprattutto per le voci maschili. Purtroppo però il filologo offre molto di rado gli strumenti per realizzare delle corrette variazioni, mentre ci informa su ogni dettaglio dell’autografo, importante per lo studioso, molto meno per l’esecutore. Ho discusso con questo con Gossett, che mi ha dato ragione, ma ha anche sottolineato un altro aspetto: sono i filologi ad aver bisogno degli esecutori che provano sul campo l’applicazione dei loro studi. Questo però non è facile: quest’anno a Pesaro ho trovato grosse difficoltà ed ho dovuto impormi per sostituire il fortepiano e il basso continuo con il cembalo solo. Poi tutti siamo stati d’accordo, ma prima sembrava di toccare un esplosivo: perché nasconderci dietro a queste cose, piccolezze in confronto all’immensità della drammaturgia d’un’opera lirica? In questo modo la filologia finisce per sembrare la arida, ma non lo è.

E per quanto riguarda i tagli?

Si può tagliare un da capo per venire incontro alle difficoltà di un cantante, inoltre il da capo non ha bisogno solo di variazioni musicali, ma deve essere anche sostenuto da un aspetto drammatico, scenico. Se dal punto di vista registico tutto si blocca ci troviamo bloccati anche noi. Anche per questo motivo cerco sempre di avere un rapporto costruttivo con i registi, mi piace molto andare a tutte le prove di scena e nella maggior parte dei casi abbiamo dei rapporti ottimi. Oggi è impensabile tornare alle regie di 30-40 anni fa, il gusto del pubblico è cambiato, sono cambiati i tempi d’espressione e la soglia d’attenzione, anche per l’influenza della televisione. E’ un fatto anche culturale, di ritmi di vita che sono cambiati. Oggi noi abbiamo quindi nuovi obblighi estetici: il teatro deve avere un ritmo quasi da musical, incalzante, i cantanti devono essere anche attori, oggi si richiede loro molto di più. Il direttore ha dunque il duplice compito di rendere la partitura più sinfonica possibile, perché oggi non c’è più differenza fra direttore sinfonico e direttore lirico, e di cercare di aiutare il regista a mettere in scena quello che ha in mente, perché se ha delle idee ha anche bisogno di essere sostenuto dal direttore. Il problema oggi è sempre drammaturgico: non esistono regie belle e regie brutte, esistono regie stupide e regie intelligenti. Ci può essere benissimo un allestimento pazzoide, si può anche contestare, però ci si deve sempre chiedere se ha dato quello che il pezzo voleva. Se la risposta è sì il regista ha avuto ragione, altrimenti ha avuto torto, è partito da un’idea iniziale e non è stato più capace di muoversi. Non possiamo più ritornare indietro e se non ci sono più i soldi per fare il teatro sperimentale bisogna fare in modo che questa collaborazione fra musica e teatro sia molto più forte di prima nel rispetto della drammaturgia, della musica, della partitura e degli artisti.

Lei è forse l’ultimo esponente della tradizione dei grandi direttori d’opera italiani.

Io ho avuto la grande fortuna di cominciare da piccolo a frequentare il teatro, ho studiato canto e quindi so anche trattare vocalmente gli artisti. Faccio dei masterclass e allora tutto diventa più facile, perché l’artista sa che il direttore lo fa respirare, capisce i suoi problemi tecnici. Un direttore che non viene dal teatro, per quanto bravo, non potrà mai capire bene cosa vuol dire stare sul palco, quali siano i problemi pratici della scena. E’ facile dire “Andate a tempo, seguitemi”, ma i cantanti o i cori non vogliono andar fuori: hanno dei problemi che un direttore nato in teatro può risolvere più facilmente. Oggi purtroppo manca una vera scuola di teatro, anche perché manca la lirica minore, che costava molto ed aveva anche una brutta nomea; dopo aver lavorato nei teatri minori per passare negli enti italiani io ho dovuto stare all’estero 10 anni, perché il mio nome, se mai l’avessero imparato, fosse dimenticato. Altrimenti sarai sempre considerato direttore da provincia, quando spesso questi sanno risolvere un allestimento molto meglio di un grande direttore in un grande teatro, perché se in pochissime prove riesci a far quadrare uno spettacolo sei sicuramente un ottimo direttore: è nei casi disperati che esce l’istinto, la cosa più bella qualità per un direttore. Con un grande istinto poi tutto funziona.

Un tempo, poi, c’era una vera abitudine al canto, nelle chiese per esempio. L’epoca d’oro delle voci è stata nel dopoguerra, quando la gente che voleva dimenticare, ma anche raggiungere qualcosa soffrendo; oggi si ottiene troppo senza sacrifici, ma sono cose che durano poco e si apprezzano molto meno. Io per esempio nella mia vita ho sofferto abbastanza, i primi anni sono stati molto duri e mi hanno formato sia come uomo sia come musicista. Ringrazio Dio per questo, perché ho avuto la possibilità di apprendere con fatica, così posso goderne i frutti, che altrimenti vivrei in modo molto più spensierato, ma anche più superficiale.

Parliamo di un importante debutto imminente, Hans Heiling di Marschner a Cagliari

E’ veramente molto interessante. L’opera è contemporanea di Robert le diable, di Norma e delle grandi opere belcantistiche. Vediamo dunque in tutta Europa opere che rappresentano l’identità di un popolo e la sua vocazione: noi il belcanto, in Germania il dramma, con recitativi già molto forti, in Francia Meyerbeer che era già avanti di vent’anni rispetto agli altri, un po’ perché l’origine tedesca, ma soprattutto perché Parigi era il fulcro ed il crocevia della vita artistica europea. La prassi esecutiva per questo come per tutto il repertorio dev’essere quella della logicità: innanzitutto lo studio del libretto, quindi l’analisi metrica di tutta l’opera, perché solo così si capisce quanto l’autore fosse ispirato. Ci sono autori assolutamente liberi nella composizione, e questa grande libertà emerge anche nell’esecuzione e all’ascolto, invece altri sono molto rigidi nella costruzione metrica dell’opera e vanno presi un po’ alla tedesca, con molta precisione. Non posso dire “Faccio Merschner quindi la prassi esecutiva sarà assolutamente tedesca”; l’idea mi sarà data dallo studio approfondito della partitura, dalle sensazioni che avrò, dall’allestimento, dai cantanti…Altrimenti è meglio cambiar mestiere subito, si deve arrivare sempre senza alcun pregiudizio. L’idea dev’essere semplicemente fare l’opera com’è, adattandola come un vestito per i cantanti e dell’orchestra con cui si lavora, tenendo presente che a qualità d’orchestra corrisponde poi qualità d’esecuzione e anche qualità di ricerca da parte del direttore: se l’orchestra non è buona bisogna farla andare insieme, se hai un’orchestra molto buona, cerchi di fare musica lavorando su suoni e dettagli. Dipende tutto dall’esperienza e la prassi esecutiva, secondo me, s’impara col tempo.
Abbiamo nominato Meyerbeer, che con le sue recenti prove a Martina Franca ha contribuito a riscoprire…

Les Huguenots sono un’opera di una drammaticità che in Italia troviamo solo trent’anni dopo. Purtroppo a lungo si è parlato di Meyerbeer, del grand opèra senza conoscerlo, se non per modo di dire: se Meyerbeer fino alla fine dell’800 era in tutti i teatri con la pulizia razziale nazista e fascista è scomparso. Inoltre era troppo difficile da eseguire, come lo è oggi per durata, complessità scenica musicale e vocale, anche nei ruoli minori. Oggi però ci sono dei titoli che devono rientrare nel repertorio almeno dei grandissimi teatri, che ormai, invece, limitano il repertorio sempre più all’indietro. Ci sono meno rischi esecutivi, ma in questo modo si uccidono le grandi voci, non si da la possibilità a nessuno di emergere nel grande repertorio. Non è vero tanto che non ci siano cantanti, quanto che se certe opere non si eseguono non ci saranno mai! Così i repertori dei cantanti sono spesso falsati: il lirico fa il lirico spinto abbondante quasi drammatico, il tenore leggero il lirico pieno. Oggi si è persa la strada e non so se la ritroveremo. Purtroppo tanti cantanti arrivano a un’audizione con Nessun dorma, Che gelida manina, Quanto è bella quanto è cara tutto insieme. Verrebbe voglia di chiudere ed andarsene di fronte a queste cose, ma la colpa è degli insegnanti: pochi sono affidabili e ciò determina una crisi esistenziale della vocalità. Troppi giovani sono sbandati, passano trenta maestri di canto, ma cosa possono fare? Purtroppo moltissimi insegnanti sono in malafede, non si rendono conto del rapporto particolarissimo, quasi un cordone ombelicale, che si crea: puoi chiedere al tuo allievo di fare qualsiasi cosa e lui la fa per te, per il canto. Si sacrificano i più begl’anni della vita cercando qualcosa che poi magari non raggiungerà; io insegno pochissimo però se qualcuno viene da me lo faccio gratis e dico in faccia quello che penso perché è giusto che ognuno sia coscio dei propri limiti. Poi ciascuno è padronissimo di rovinarsi ugualmente la vita, però nel momento in cui tu illudi qualcuno per spillargli i soldi della lezione, per me è soltanto malafede.

A me piace molto lavorare vocalmente in sala, perché se conosci la vocalità non chiedi effetti, ma sai come lavorare tecnicamente all’interpretazione. E’ bene dare degli indizi, degli spunti: la vocalità influisce sulla psiche, quindi il colore trovato nella voce poi si riflette anche nel fraseggio e nella mentalità dell’artista. L’interpretazione è un aspetto assolutamente vocale, non si possono scindere le cose. Non ha senso chiedere ad un cantante il colore della notte o ad un violinista un suono con fuoco: tutto va spiegato tecnicamente, senza giri di parole ma andando al succo del discorso. Certo, per parlar tecnicamente ai cantanti bisogna conoscere la tecnica perché l’artista deve fidarsi di te, bisogna costruire un rapporto che va curato, con calma, perché so che non è facile fidarsi di un direttore che insegna canto.
Progetti?

Gli impegni futuri sono molti, da quando son tornato in Italia sono arrivato con una certa facilià a livelli abbastanza buoni ho bisogno di riflettere e pensare al futuro. Vorrei fare in modo che la posizione che sto raggiungendo mi serva per aiutare gli altri, in particolare i giovani cantanti: il mio sogno sarebbe, nei prossimi anni, insegnare molto di più e fondare un’accademia di canto, creare qualcosa di nuovo in questo senso mi piacerebbe molto.

di Roberta Pedrotti

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